Per gli antichi il vino era vita e manifestazione divina... e forse, dopo averne bevuto un po', direi che avevano ragione. Le terre della Magna Grecia sono state per secoli uno dei più fiorenti vigneti dell'umanità dopo che i primi coloni fenici e poi greci vi trovarono la loro nuova casa e vi introdussero la cultura intensiva della vite, intorno all'VIII secolo a.C. Be', questo lo sappiamo un po' tutti, è dalle elementari che ci raccontano del commercio del vino nel Mediterraneo e di come fosse trasportato in anfore di coccio su e giù per le rotte verso le principali città mercantili e portuali dei tempi antichi. I nostri musei sono pieni fino alla noia di frammenti di coccio che un tempo hanno contenuto del vino. Però, però... non sapevo che una delle più antiche testimonianze scritte della coltivazione della vite nel sud della Sicilia, citata anche nel disciplinare del Cerasuolo, è un contratto di compravendita di un terreno a vigneto, iscritto su una tavoletta di piombo arrotolata, risalente al IV secolo a.C. e che... l'acquirente era una donna. Una imprenditrice del vino ante litteram, nella antica colonia siracusana di Kamarina, il cui nome, che significa "abitata dopo molta fatica", la dice lunga sul bisogno che dovevano avere quegli uomini di un buon sorso di vino a fine giornata.
Un'altra donna di carattere, Vittoria Colonna de Cabrera, contessa di Modica, nel 1607, rimasta vedova e a corto di finanze per l'eccessiva prodigalità del defunto marito, si diede all'impresa di ricostruire in un nuovo insediamento l'antica colonia di Kamarina sottoponendo, come diremmo oggi, un business plan al re di Spagna. Il nuovo borgo porta ancora il suo nome, Vittoria, nel ragusano. Per dare spunto all'economia languente della regione, l'intraprendente Vittoria regalò terre ai contadini, purché si impegnassero a impiantarvi vigneti. Per lungo tempo quel territorio rinacque alla produzione del vino che fu esportato prima verso Malta e, dall'ottocento, anche verso la Francia come vino da taglio. Il nero d'Avola e il frappato, che sono le uve utilizzate nel Cerasuolo di oggi, erano già allora tra i vitigni più coltivati, ma fu solo dopo il disastro economico apportato dalla fillosera a una regione che quasi solo di vino viveva che una nuova generazione di viticoltori passò a produrre vini più leggeri e profumati secondo il nuovo gusto del tempo. Il Cerasuolo di Vittoria, che è una D.O.C.G. molto recente, deriva perciò da una storia antica in cui donne di azione hanno lasciato il loro segno. Sarà per questo che la bottiglia di oggi, un Cerasuolo di Vittoria D.O.C.G. 2010 - Valle dell'Acate, ha qualcosa di femminile, profumo leggero e una sottile scontrosità nell'assaggio. Il colore è un bel rosso rubino, fresco e non cupo, la densità non eccessiva e il tannino appena accennato. Ha un aroma tipico di ciliegia come vuole il nome, ma con decise note eteree, forse un po' troppo marcate per i miei gusti. Il gusto è fine, con una persistenza media in cui si sente il leggero invecchiamento in tonneau. Per cosa va bene? Secondo me un buon vino per i sughi di carne, ma potrei azzardarlo sulle melanzane alla parmigiana o su una pasta alla Norma. Potete trovarlo a poco più di 10€ in enoteca e berlo soddisfatti ripensando alle antiche signore che hanno contribuito a rallegrare la vostra tavola di oggi.
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